Prostitute del marketing? No, grazie

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Premessa doverosa: sono un mega fan di Chiara Ferragni. Non di quelli che morirebbero per avere un suo autografo o che comprerebbero mai qualcosa della sua collezione, ma a livello imprenditoriale “sciapò“, come direbbe Cassano.

Nessuna in Italia, e per giunta donna, ha creato qualcosa di lontanamente paragonabile a quello che ha creato Chiara a livello di personal brand, di autorità e di potere mediatico.

Il suo logo con l’occhietto e le sue partnership le possiamo vedere ovunque. 

Letteralmente

Dalle chewing gum della DayGum alle macchinette Nespresso, dalle bottigliette d’acqua Evian ai cosmetici Lancôme, il suo occhietto sta dappertutto.

Per non parlare della quantità di roba che sponsorizza. 

Con quasi 30 milioni di follower, ha un seguito della madonna e la visibilità che può dare alle aziende che la pagano (mooolto profumatamente) è in molti casi addirittura superiore a quello che si avrebbe con un passaggio di spot in tv.

Quindi, a livello di “esposizione”, niente da dire. 

Per raggiungere lo stesso quantitativo di pubblico dovrei spendere una fraccata di migliaia di euro in ads.

È così che moltissimi imprenditori vengono sempre più tentati dall’ingaggio di un volto famoso che possa dare visibilità al proprio brand, convinti che questa si traduca in piogge di soldi.

Se, lallero.

Il numero follower non è garanzia di vendite

Uno studio riportato da Spillthemarketing.com può darti un’idea di quanto seguire un influencer non necessariamente vuol dire decidere di comprare ciò che trovi annunciato nei suoi post di Instagram.

Per la precisione, più della metà non compra un bel niente (nonostante l’86% dei partecipanti aveva affermato di tenere i propri beniamini in considerazione).

Per completare la statistica, ti riporto anche il caso di Ariana Renee. È un’influencer diventata famosa su Tik Tok, che nel 2019 prova a lanciare il suo brand vendendo t-shirt alla sua community di 2,5 milioni di follower

Se anche la metà della metà dei suoi follower ne avesse comprata una, non sarebbe andata poi così male.

Vuoi sapere com’è andata? 

Riesce a piazzarne solo 36.

Rimane talmente delusa che scrive una spataffiata di post (cancellato poco dopo) in cui si lamenta dei follower e degli amici che non l’hanno supportata nel suo progetto.

Ps. Te lo allego solo per darti un’idea di cosa intendo per “spataffiata”.

L'influencer che non influenza e che non riesce a vendere

Visto che le righe che hai appena letto potrebbero non essere sufficienti a farti desistere dallo sperperare i tuoi preziosi fondi aziendali in collaborazioni inconcludenti, ti voglio almeno mettere in guardia su tre tipi di influencer che devi assolutamente evitare, e perché.

Ma prima, visto che in casa Propagando non ci basiamo su teorie sentimentaliste, ma sui delicati meccanismi psicologici che ci guidano nelle decisioni, è il caso di spendere due parole sul perché il business dell’influencer funziona (o no).

Il bias che fa funzionare l’influencer marketing

Le dinamiche alla base della relazione follower-influencer possono essere associate a quelle spettatore-personaggi di un film.

Apprezziamo un film perché la nostra mente tende automaticamente a immedesimarsi nella storia narrata, empatizzando e identificandosi con i personaggi, mezzi di trasporto del significato del film, del messaggio del regista. 

La mente agisce come se ciò che guardiamo fosse vero, facendoci sperimentare emozioni come simpatia e ammirazione, odio e disprezzo.

Ecco, l’influencer è il personaggio di un film estremamente complesso.

Alcuni follower tendono a identificarsi con i personaggi, assimilando il messaggio da loro veicolato (brand e pubblicità) come proprio. 

È una sorta di danza di costruzione e strutturazione del senso di identità, mediato dalla visione del film.

In parole semplici il concetto si riassume in: vorrei essere come te, quindi compro quello che compri anche tu per sentirmi parte della tua vita.

È una chiara manifestazione del bias di autorità

Anche se malata, in questo caso.

Lungi da me elogiare gli influencer, penso si sia capito. Ma è interessante osservare il principio che porta un certo numero di seguaci ad “obbedire” ai consigli di alcuni di questi personaggi.

Capostipite di questo fenomeno è Kim Kardashian, colei che ha creato per prima il concetto di “famous for being famous” (famosa per essere famosa). 

Un termine usato per indicare chi ha raggiunto la notorietà senza un motivo particolare e senza avere particolari talenti o abilità.

Una che ha un seguito talmente esagerato da riuscire a spostare veramente dei numeri spaventosi. Il problema, semmai, è che il costo del suo ingaggio è altrettanto smisurato.

Un esempio di bias di autorità finito male?

Agli inizi di ottobre 2022 la star di “Al passo con i Kardashian” ha ricevuto una multa di 1,26 milioni di dollari dalla Sec. Aveva promosso qualche criptogonzata senza denunciare di essere stata pagata 250mila dollari per farlo.

No, la notizia non è la multa, che per il suo patrimonio (1,4mld) ha circa lo stesso impatto di quello che per me avrebbe prendere una multa per divieto di sosta.

La vera notizia è che centinaia di migliaia dei suoi 250 milioni di follower hanno creduto alla criptoponzata di turno solo perché era lei a proporla.

Una ragazza che vive in un mondo patinato e che palesemente non ne sa assolutamente niente di mercati, finanza e criptovalute, ma che guadagna solo dall’associazione con la sua faccia e con il suo nome, ma il cui desiderio di emulazione genera un forte principio di autorità in alcuni suoi seguaci.

Lo so, potresti dire “beh, quindi se scelgo bene il mio influencer, i suoi fan per emularlo compreranno i miei prodotti”.

Pensiero lecito.

È per questo che, chiarito questo meccanismo, è arrivato il momento di iniziare la nostra analisi delle categorie di testimonial che non dovresti assolutamente ingaggiare per la tua azienda.

Eccoli.

I 3 tipi di influencer da non ingaggiare

1 – Gli influencer generalisti

Il problema nell’investire con questi influencer “generalisti”, cioè che non hanno una community focalizzata ed educata su un tema verticale, è che promuovono tutto e il contrario di tutto.

Basta pagare.

E questo, per il tuo brand, potrebbe essere un bel problema.

Esempio molto basic: Chiara Ferragni ha un suo documentario/reality su Amazon Prime. Sponsorizza i film in uscita su Amazon Prime. Consiglia di iscriversi ad Amazon Prime.

Salvo poi, il giorno dopo, consigliare una piattaforma video on demand concorrente come Disney Plus.

Ovviamente né Amazon né Disney andranno in fallimento per questa ambiguità.

Altrettanto ovviamente, i suoi follower adoranti non smetteranno di seguirla solo perché sponsorizza un giorno i prodotti dimagranti della Foodspring, affermando di essere attenta alla linea e alla qualità degli ingredienti, e quello seguente invita a comprare quelle chimicate dei gelati confezionati Sammontana, dove l’unica cosa naturale forse è lo stecchetto di legno.

Parliamo di aziende note. Con brand spesso ben consolidati. 

Questo genere di ambiguità, su realtà come le loro, ha un impatto minimo o nullo.

Ma la prima regola che dovrebbe seguire il marketing di una realtà piccola come la tua o la mia, che non può permettersi di “sprecare” soldi in visibilità un tanto al chilo, è far capire ai nostri clienti perché devono venire da “noi” e non andare dagli “altri”.

Il tuo marketing deve essere rivolto ai competitor.

Devi impedire che il tuo cliente vada da loro, ancora prima di convincerlo a venire da te.

Capisci bene, a questo punto, che associare il tuo brand a un ambassador che oggi promuove la tua azienda e domani un tuo diretto concorrente… non è che sia la migliore delle strategie da adottare.

È vitale avere il controllo sia sul messaggio di marketing che sul canale scelto per veicolarlo.

Ecco perché ogni imprenditore, soprattutto quelli al timone delle realtà più piccole, devono creare i PROPRI materiali di marketing e non sperare di risollevare le sorti della propria azienda girando la stecca all’influencer di turno, pronta a “tradirli” alla prima occasione utile.

2 – L’influencer wanna be 

Se dovessi avere una conversazione onesta con un candidato appartenente a questa categoria, la conversazione andrebbe più o meno così.

“Piacere, sono GianPancrazio, sono un influencer e su Instagram ho 70mila seguaci.”

“Ah… E stica**i! Cosa fai nella vita, amico influencer? Chi influenzi, precisamente?”

“E chi lo sa, signora mia…”

Fatto sta che da qualche tempo ci troviamo a dover affrontare un’orda di buoni a nulla convinti di essere i protagonisti di una nuova entusiasmante era. 

Le giornate dell’influencer tipo vanno avanti tra una foto che ringrazia questo o quel marchio per il costoso regalo ricevuto e un video su Snapchat che esalta il pessimo film di turno alla cui prima è stato invitato. 

Vivono bene, almeno a giudicare dai post su Instagram (per chi crede che la vità su Instagram sia davvero uno specchio della vita vera).

E soprattutto vivono a sbafo, visto che a quanto pare non pagano un fico secco. Dal tramezzino a domicilio alle scarpe sportive di grido, dagli hotel di lusso a libri che non leggeranno mai. È tutto un continuo “Grazie amici di X, grazie amici di Y, per il bellissimo regalo”. 

Seguono decine di hashtag, qualche emoji cazzarona e l’invito a seguire l’esaltante vita dell’influencer su Snapchat, Twitter, Facebook, Instagram, Telegram, YouTube, L’Araldo di Sant’Antonio e il Calendario di Frate Indovino.

Sia chiaro. Pochi e selezionatissimi influencer esistono davvero e meritano il nostro rispetto, non fosse altro perché sono riusciti a far credere al prossimo di essere utili a qualcosa e ci hanno fatto persino i soldoni. 

Da Chiara Ferragni in giù, si aggira per il web un manipolo di eroi che hanno trovato l’America sul serio.

I veri cialtroni, quelli che andrebbero presi a coppinate sulla nuca da mane a sera, sono quelli del “vorrei ma non posso”. I fashion blogger che pubblicizzano capi di Terranova, quelli che elemosinano in DM su Twitter un retweet “perché sto provando ad aumentare i follower altrimenti non mi prendono sul serio come influencer”.

La maggior parte di loro rientra nella categoria “parassiti per imprenditori sprovveduti”. 

Titolari di azienda convinti che mettere una ragazzina con 70mila follower morti di f*ga a sculettare con un vasetto di marmellata in mano si traduca istantaneamente in migliaia di vendite.

Illusi.

L’influencer wanna be è quello che conosce e applica tecniche “fraudolente” per aumentare seguaci. Tipo taggare brand nei post e far sembrare che ci sia una collaborazione dietro, nella speranza che altre aziende lo contattino.

Ma la pratica che più dà l’idea della disperazione da followers è quella di far parte di gruppi Whatsapp o Telegram o altro in cui gli iscritti si mettono d’accordo per scambiarsi like e commenti a vicenda.

Il succo di quello che voglio dire l’ha ben espresso Vincenzo Maisto, blogger salernitano aka Il Signor Distruggere.

3 – Il personaggio controverso

A settembre, una catena di palestre ha scelto Fedez come testimonial per la sua campagna ads.

Per quanto imprenditorialmente lo stimi, è un personaggio che genera una certa controversia, condita quasi sempre da una generosa dose di invidia.

Il risultato è che nessuno ha dimostrato il benché minimo interesse verso l’offerta. In più, sotto il post, è partita una vera e propria shitstorm tra chi ne è fan e chi lo avversa.

Non so quanto sia costato ingaggiare Fedez, ma conosco il suo cachet medio e parliamo di cifre a quattro zeri anche solo per un banale video di 13 secondi.

Non possiamo nemmeno prevedere il ritorno di questa campagna di marketing. Magari qualcuno si è iscritto sperando davvero di trovare il proprio beniamino in palestra (se, lallero), ma se tanto mi dà tanto non prevedo CPL (costo per lead) memorabili.

Vuoi un testimonial? Ecco come sceglierlo

Presentate le categorie che ti suggerisco spassionatamente di evitare, aggiungo che non sono tra quelli che demonizzano a prescindere l’ingaggio di testimonial e di influencer.

Quello che invece ci tengo a dirti se scegli di andare in questa direzione, è che ti assicuri di tre cose.

1) Il volto a cui assocerai il tuo brand non lo nasconde o compromette.

2) L’esperienza o la notorietà del testimonial scelto è coerente con il settore in cui operi. 

Della serie, se il tuo settore è la ristorazione prediligi un food blogger con una bella community focalizzata invece di qualche oca giuliva che magari prende trecentomila like solo per sbattere il culo in primo piano in ogni singola foto.

3) La tua campagna in collaborazione deve essere tracciabile. Considera costi di ingaggio e aspettative di conversione e monitora i kpi. 

Non andare a sentimento e ricorda che il tuo obiettivo è vendere. 

Lo ripeto, nel caso ti sia sfuggito di mente come ai partecipanti a un altro sondaggio di Spillthemarketing.com.

Guarda la colonnina rosa.

Appena 4 imprenditori su dieci fanno una campagna con il volto di un influencer con l’obiettivo di vendere qualcosa.

Ora, se vuoi sapere la mia in merito, per ogni azienda che non abbia soldi da spendere a casaccio, la colonnina rosa è l’unica ammissibile.

È quella che ingloba al suo interno qualsiasi altro obiettivo secondario.

Creare una community, creare e rafforzare il posizionamento, mantenere una relazione con i clienti ecc. sono tutti obiettivi che hanno (o dovrebbero avere) come scopo ultimo quello di vendere.

Alcuni brand possono permettersi di scialacquare centinaia di migliaia di euro in mera visibilità. 

Noi no. Mai!

Bene, con queste parole confido di aver fatto la mia opera di bene del giorno evitandoti di spendere soldi a capocchia, nel caso avessi in mente di riporre tutte le tue speranze di successo imprenditoriale in questo tipo di collaborazioni.

Resta solo un ultimo punto da chiarire.

Cosa devi fare per non aver bisogno dell’influencer di turno

Prima abbiamo visto che il bias di autorità ci aiuta a delegare il peso dell’incertezza della scelta di acquisto a qualcuno che riteniamo meritevole di fiducia.

Un bravo imprenditore dovrebbe diventare una sorta di influencer del suo settore.

Ovviamente questo significa niente sculettate su Ticche Tocche. Niente lifestyle con macchine tarre e niente cene ostentate ogni 3×2.

Diventare influencer del proprio settore significa diventare opinion leader. 

Significa spostare opinioni e consapevolezza dei propri clienti dimostrando la propria competenza e autorità riguardo il settore in cui lavori e vendi.

Significa produrre contenuti che educhino, convincano, vendano, demoliscano false credenze, ecc.

Significa produrre materiali di marketing con un piano editoriale costruito come copy comanda, analogamente a come una qualsiasi influencer pubblica contenuti (spesso di dubbio gusto e qualità) quasi ogni giorno.

Significa in alcuni settori poter arrivare tranquillamente a raddoppiare o triplicare i prezzi dei propri servizi, perché in fin dei conti, l’autorità paga e si paga.

Ed è esattamente quello che facciamo con i clienti di Propagando (trovi QUI le loro storie).

Se anche tu vuoi contare su di noi per costruire o rafforzare la tua autorità grazie a materiali di marketing progettati per accompagnare il tuo cliente a conoscerti, fidarsi e sceglierti, QUI trovi le nostre regole d’ingaggio!