Milioni di mosche si sbagliano: non devi cercare di piacere a tutti

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Ogni tanto, come tutti, ho bisogno di mandare in pausa il cervello. 

Di solito lo faccio in pausa pranzo, dove assieme al caffè mando giù un paio di pagine divertenti su Facebook. Tra queste, una delle più surreali è Commesso Perplesso. Una chilometrica raccolta di varie frasi di clienti non proprio svegli, udite da dipendenti e imprenditori di ogni settore.

Vai pure a cercartela, ma ti avverto. Potrebbe farti sentire estremamente intelligente, o estremamente desideroso di vedere finire il mondo.

Si va da gente che tenta ancora di pagare con le cinquecento lire (“Oddio, non sono due euro?”), a signore che fanno smantellare vetrine intere per poi dire “Grazie, ci rivediamo ai saldi.” Ogni volta che credo di aver trovato il fondo, arriva una nuova storia e riprendo a scavare.

Oggi, mentre leggevo dell’ennesimo negoziante con la pazienza di Giobbe, mi sono venute in mente queste parole:

“Si può piacere a qualcuno per un sacco di tempo, si può piacere a tutti per un po’, ma non si può piacere a tutti all’infinito.”

Le attribuiscono a Lincoln, ma come spesso capita su Internet non sono davvero sue.

E poi è stato proprio l’emerito presidente a dirci di non credere a tutto ciò che leggiamo sulla Rete.

“E va bene, bello sapere cosa fai nel tempo libero, ma dove vuoi arrivare?”

Voglio arrivare a enunciare una semplice verità:


Nel marketing, tentare di piacere a tutti è una rapida discesa verso il fallimento.

Kaboom.

Applausi dalla platea, rose dal loggione, statuetta d’oro in pugno e bacio accademico da Nicole Kidman.

Va bene, va bene. Ho detto un’ovvietà. Tutti quanti dovrebbero sapere che non ha senso stravolgere la propria azienda, per andare appresso a ogni possibile categoria di cliente.

Lo dice anche, ironicamente, un detto popolare:

“Mangiate merda. Milioni di mosche non possono sbagliarsi.”

Giusto?

Beh, c’è un caso storico che dimostra il contrario. Ovvero, che non è affatto ovvio.

E che, prima di capirlo, si passa dalle pernacchie dei media, a una presentazione umiliante e a  quattrocento milioni di dollari nel cesso.

Sto parlando della Ford Edsel.

La Ford che?”

Appunto.

Questa baracca qui

Siamo nel 1956. La Ford Motor Company non è più la compagnia che ha motorizzato l’America, ma ha ancora un considerevole peso nel mercato. Le concorrenti iniziano a guadagnare terreno, quindi i manager decidono di creare qualcosa di nuovo.

Ci sono solo due capisaldi. Deve essere l’auto del futuro, e deve poter piacere a tutti.
Uomini e donne, ricchi e meno ricchi, potenziali piloti e casalinghe tranquille.

Tutti.

Preannunciano quattro berline e tre station wagon, con diciotto varianti possibili.
E, per la prima volta, nel 1957, organizzano una presentazione divisa per sessi. 

Agli uomini viene mostrata su un circuito, dove per poco uno dei collaudatori non si annienta in curva. Per le donne si organizza una specie di fashion show, dove rapidamente salta fuori che la presentatrice è un travestito.

Davvero, non mi sto inventando nulla.

Dopo pochi mesi dal lancio, salta fuori che nessuno sta acquistando le nuove auto. A quanto pare, non avere un target preciso si è rivelata una pessima idea.

Nel 1960, a meno di tre anni dal lancio, Ford stacca la spina al moribondo marchio. Hanno perso 350 milioni di dollari e creato uno scheletro piuttosto ingombrante da nascondere nei loro armadi.

Ne usciranno solo nel 1964, imparando a pieno la lezione.

“Ci serve qualcosa di aspetto cafone, che faccia ROARR quando affondi il pedale e che piaccia ai giovani smargiassi.”

Credit: Meritt Thomas 


L’unico modo per brillare in un settore, è creare e mantenere una propria specifica nicchia.

Lo so che continuo a sembrare un disco rotto, ma il fatto è che in Italia c’è uno strano senso della tradizione, che spesso si traduce nel “non toccare niente, che nonno ha scalato il Carso per farci avere questo gufo di coccio soprammobile.”

Nel mondo imprenditoriale, in particolare, il nonno non scalava il Carso, ma continuava a ripetere un mantra: “Ti servono più clienti, ancora più clienti, ancora più clienti…”
E quando gli chiedevi come fare, le risposte erano solo due: 

“Abbassa i prezzi. E cerca di accontentare tutti.”

Il povero nonno non aveva colpe. Era cresciuto in un mondo dove a ogni angolo di strada c’erano il sarto, il ciabattino, il salumiere e il barbiere. La gente era ancora abituata a una certa piattezza di beni, comprava ciò che serviva quando serviva e in generale non si concedeva nulla più del necessario.

Solo che poi l’azienda l’ha presa il padre, i tempi sono cambiati, e lui ha continuato a seguire la via del nonno. Non lo sapeva, ma era vittima di un piccolo errore cognitivo.
Proprio così. Era tra le grinfie della loss aversion.

Questo bias fa leva su un principio essenziale dell’animo umano: a nessuno fa piacere perdere qualcosa. Che si tratti di soldi, beni o reputazione, perdere qualcosa ci produce una vera e propria sofferenza.

Il primo a usare il termine è stato Daniel Kahnemann, nel 1979. E il suo saggio su questo argomento ha scatenato un discreto terremoto nel mondo dell’economia.

La sofferenza che proviamo, quando dobbiamo rinunciare a qualcosa, è spesso citata come un elemento da sfruttare nel marketing. Moltissimi copywriter ne parlano come qualcosa su cui costruire intere campagne.

A farne un uso particolarmente “peloso” è Facebook, per esempio. Se provi a cancellare il tuo profilo, ti viene ricordato con grande malinconia che stai per perdere tutto ciò che hai creato in anni e anni di condivisione.

“Vuoi davvero mandare in fumo anni e anni di tempo perso?”


Ed è tutto bellissimo ed efficacissimo, finchè questo bias rimane dal lato del cliente.

Peccato che anche gli imprenditori siano esseri umani, esattamente come i clienti. E dell’effetto della loss aversion su di loro si parla molto molto meno.


Tutti gli esseri umani sono potenziali vittime dei bias, ma solo chi li conosce ha la possibilità di superarli.


Uno dei pochi a parlare del rapporto tra imprenditori e loss aversion è stato Camerer, in una ricerca effettuata sui tassisti di New York.

Immagina di essere un tassista. La tua auto è a tutti gli effetti la tua azienda.
Se vuoi massimizzare i tuoi profitti, cosa devi fare? La logica ti direbbe di sfruttare le giornate in cui il tuo lavoro è più utile (magari quando piove, o quando c’è sciopero dei mezzi pubblici), e di allentare la presa nei giorni più fiacchi.

Invece, sorpresa sorpresa, a New York succede esattamente il contrario. Motivo per cui trovare un taxi quando piove è un’impresa degna di Ercole.

A cosa è dovuto? A una variante piuttosto perniciosa della loss aversion.

Il tassista medio si pone degli obiettivi fissi, e decide di lavorare fin quando non li ha raggiunti. Esattamente come molti imprenditori calcolano una media di incasso giornaliero, e una volta raggiunta non si muovono più.

Quella quota può essere raggiunta con una gran quantità di clienti di scarso valore, o con pochi clienti di alto livello. Solo che l’idea di perdere una grande base di reddito, per concentrarsi su meno soggetti di più alta qualità, va a sbattere contro il bias di loss aversion.

Tutto molto bello, ma a questo punto che si fa?

Beh, per prima cosa si fa selezione. Devi fare in modo che il tuo prodotto scavi una nicchia precisa. Che non è necessariamente qualcosa di innovativo: la tradizione, come dice chef Cannavacciuolo, va benissimo, se la sviluppi al massimo assoluto della qualità.

Se hai la certezza di avere una nicchia salda quanto il tuo prodotto, puoi tranquillamente permetterti di selezionare anche i clienti.

Dividere i buoni clienti dai semplici acquirenti è senza dubbio più facile, se ti avvali del neurocopywriting

La selezione, infatti, non è necessariamente qualcosa di brutalista. Non serve mettere i cartelli che vietano l’ingresso a cani e minori di quattordici anni, come qualcuno ancora si ostina a fare.

Il neurocopywriting ti permetterebbe di effettuare una cernita già al momento della stesura dei materiali. E la prima cosa da fare è sicuramente polarizzare il pubblico.

Il modo più semplice è quello che usano la maggior parte degli artigiani e dei fabbricanti di prodotti “naturali”. 


“Compra il nostro prodotto, non è paragonabile a qualsiasi altro prodotto della concorrenza.”


È un metodo senza dubbio efficace. Così efficace, e così spesso usato, da venire sistematicamente ignorato.

Esistono metodi più sottili, ma altrettanto efficaci. E soprattutto, molto meno banali.

Un buon caso studio è quello dei pantaloni Bonobos.

Nel 2007, i due manager Brian Spaly e Andy Dunn si accorgono che all’uomo moderno manca una cosa fondamentale. Una cosa che anche io non riesco più a trovare, se non grazie ai buoni auspici dei sarti romani.

Non c’è modo di acquistare dei pantaloni normali. Con una taglia normale, una lunghezza normale, una vita normale, e soprattutto senza rovesciare mezza dozzina di negozi.

Ed ecco la nicchia.

Una volta trovata, decidono di aprire un e-commerce e di iniziare a vendere con una strategia (apparentemente) molto semplice. 


“I nostri pantaloni, grazie al loro taglio speciale, evitano l’effetto pannolone.”

In altre parole, ti rendono più bello se ti guardano il culo da dietro.

Bonjour finesse.

Questa semplice frase è neurocopywriting di alto livello. Anzichè dichiarare apertamente “facciamo cose più belle della concorrenza”, puntano su uno specifico beneficio diretto ed egoista.

Si dà il caso che esista un fenomeno psicologico, chiamato profezia autoavverante. In breve, se ti convincono che un paio di pantaloni può renderti più bello, il tuo cervello si convincerà che è così.

Game. Set. Match.

Un match che ha fruttato 310 milioni di dollari, quando nel 2017 Bonobos è stata acquistata dal gigante del retail Walmart.

E vendeva pantaloni. Normali.

Come altre dodicimila aziende nel mondo prima e dopo di loro.

Questo è solo uno dei possibili risvolti a cui può portare basare il tuo messaggio di marketing sui principi del neurocopywriting. 

Una volta trovata la nicchia in cui inserire il tuo prodotto, possiamo strutturare e creare per te un copy ideale per attrarre i clienti giusti per te, allontanando allo stesso tempo quelli inutili, problematici o fuori target.

Sfruttando i bias e i principi delle neuroscienze, io e gli altri ragazzi di Propagando possiamo effettuare questa selezione in modo molto meno banale e molto più posizionante del “scegli me perché sono meglio degli altri”.


Interessante, no? Facciamoci due chiacchiere senza impegno per discuterne.

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