WOKE CULTURE: cos’è e come non farle distruggere la tua azienda

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Qualche tempo fa avevo parlato di cause sociali e del perché appoggiarle solo per moda non fa altro che distruggere il tuo brand.

Penso sia arrivato il momento di tornare sull’argomento prima che, ispirato dall’ondata di inclusività, mandi all’aria tutti gli sforzi che hai fatto finora per portare la tua azienda al punto in cui è.

La tendenza nel marketing è questa: modificare un brand storico e funzionante per includere qualcuno che dal posizionamento originale era tagliato fuori o non era esplicitamente incluso.

Con il termine woke, che letteralmente in inglese vuol dire qualcosa come “svegliato”, si indica lo stare attenti alle rivendicazioni delle cosiddette minoranze, che si parli di orientamento sessuale o identità di genere, di origini etniche o di disabilità.

Prima di entrare a gamba tesa nel vivo dell’argomento, ti ricordo che le indicazioni che leggerai non sono un invito a supportare o meno una causa o un’altra. Propagando non si occupa di tematiche sociali.

La mia analisi si limitata esclusivamente alla prospettiva del copy, al tuo posizionamento come azienda e ai risultati dei tuoi investimenti in marketing.

Detto questo, se hai voglia di cambiare sesso sul tuo documento, non sarò di certo io a polemizzare!

Vediamo subito due casi eclatanti di influenza della cultura woke.

Caso di riposizionamento per inclusività #1: Victoria’s Secret

Il noto brand ha sempre avuto il casting più rigido, il più vincolato a canoni fisici ed estetici ben precisi: chi lo passava, entrava di diritto nell’olimpo delle top model considerate più sexy (e pagate) del mondo. 

Dal 1995, il Victoria’s Secret Fashion Show è stato un’istituzione, non tanto per le collezioni di fantasiosa lingerie presentata, ma per la risonanza mediatica della passerella.

La sfilata-evento è stata sospesa nel 2019 per le critiche che avevano investito il marchio, accusato di portare avanti attraverso le sue campagne una cultura misogina, sessista e discriminatoria, poco rispettosa delle differenze.

La nuova comunicazione “inclusiva” porta però ad una crisi di posizionamento, che si traduce anche in crisi di vendite: secondo gli ultimi dati resi noti, il marchio è passato da 664,1 milioni di dollari a 540.

Ecco com’è stato possibile.

Ripercorriamo la storia del Brand

L’inizio è noto più o meno a tutti: Victoria’s Secret viene fondata nel 1977 da Roy Raymond a San Francisco, California.

Raymond, che aveva lavorato per una grande azienda di abbigliamento, voleva creare un’esperienza di shopping intima e confortevole per gli uomini che acquistavano regali per le donne, ma aveva notato che il settore dell’intimo era dominato da grandi magazzini e negozi che spesso intimidivano gli uomini e che mancavano di una selezione di lingerie elegante e raffinata.

Così apre il suo primo negozio di lingerie, che ha chiamato Victoria’s Secret, ispirato dalla Regina Vittoria d’Inghilterra e dall’idea che l’intimo fosse un segreto che le donne potevano tenere per se stesse.

Il negozio di Raymond ha subito riscosso un grande successo, soprattutto nel pubblico femminile che finalmente vedeva valorizzata la sensualità della propria intimità, tanto che in breve tempo apre diversi altri negozi nella regione della Baia di San Francisco.

Nel 1982, Roy vende l’azienda a Leslie Wexner, fondatore di L-Brands, che porta Victoria’s Secret a diventare un marchio globale con negozi in tutto il mondo.

Sotto la guida di Wexner, Victoria’s Secret ha introdotto le famose sfilate di moda, i “Fantasy Bras” e gli “angeli”, che hanno contribuito a rendere il brand uno dei più famosi al mondo nel settore dell’intimo.

Il Victoria’s Secret Fashion Show diventa un palcoscenico che si trasforma in un vero e proprio trampolino verso il successo per una lunga serie di supermodel, consacrate al salto di carriera proprio in quanto “angeli”.

La prima sfilata è stata nel 1995, a New York, Hotel Plaza, a pochi giorni da San Valentino. 

A svestirsi per lo storico brand di lingerie c’era l’armata delle super anni ’90: Naomi Campbell, Helena Christensen, Karen Mulder, Stephanie Seymour.

L’anno dopo si aggiunsero Heidi Klum, Laetitia Casta, Tyra Banks e Claudia Schiffer. 

Non ci misero molto le tv nazionali ad accaparrarsi i diritti per la messa in onda. Il primo spot pubblicitario fu nel 1999, durante il Super Bowl.

Risultato: milioni di americani incollati allo show, trasmesso in web podcast e poi sulla ABC. 

Milioni di acquisiti da parte di donne che volevano sentirsi belle e attraenti come gli angeli visti in tv o sulle copertine patinate. 

Da allora, le angels non hanno avuto bisogno di presentazioni: Gisele Bündchen, Alessandra Ambrosio, Adriana Lima…

La donna che, nella sua intimità, voleva sentirsi sensuale e sicura di attrarre e piacere, sceglieva Victoria’s Secret.

Poi è arrivata la body positivity

L’inclusività forzata. 

L’ideologia woke.

Il brand, ovviamente polarizzante, invece che continuare per la propria strada si è piegato a queste ideologie, includendo taglie per modelle over size ed eliminando dai cataloghi le linee più sexy per non “oggettificare la donna”.

Risultato? 

È tornato ad essere un brand di intimo come tanti. Uno da grandi magazzini.

Nel 2020, un articolo del New York Times (e non era il solo) ha accusato Edward Razek, ex direttore marketing di L Brands, società madre di Victoria’s Secret, di aver creato una “cultura di misoginia, bullismo e molestie”.

All’epoca ci si è chiesti se il Victoria’s Secret Fashion Show fosse ancora rilevante o appropriato al clima della moda. 

Nel 2018, a Razek è stato chiesto se lo show avesse bisogno di una revisione rispetto alla sua estetica sensuale e provocante e se avrebbe mai preso in considerazione la possibilità di presentare un cast più eterogeneo, incluse modelle trans o plus-size. 

Egli ha notoriamente respinto l’idea, dicendo a Nicole Phelps di Vogue Runway

“Non credo che dovremmo farlo. Perché no? Perché lo show è una fantasia. È un intrattenimento di 42 minuti. Ecco cos’è”.

Risposta corretta, se l’azienda avesse avuto le palle di rimanere fedele a sé stessa.

Ma siccome se oggi non hai un brand che rappresenti modelle di tutte le taglie, oltre a queer, trans, non binarie e drag queen, vieni accusato di ogni possibile nefandezza, Razek è stato costretto a dimettersi.

Salvo far tornare l’azienda sui suoi passi dopo soli 4 anni, per evidente mancanza di risultati, dati da un posizionamento che si è andato a far benedire, e con esso il copy.

Copy e posizionamento vanno sempre a braccetto. Sono l’uno l’espressione dell’altro.

Se non hai un posizionamento chiaro e definito, il tuo copy sarà all’acqua di rose e girerà intorno all’obiettivo, senza mai sfiorarlo.

Un esempio concreto: guarda questi due annunci. Il primo del 2019, il secondo di qualche settimana fa. Sono post social, quindi non aspettarti grandi perle.

Come vedi, nel primo caso non c’era neanche bisogno di fare offerte. Nel secondo pur di riuscire a venderlo, il brand è costretto a fare offerte sconto (segno sempre di un appeal molto basso).

Il motivo è semplice:

Victoria’s Secret ha distrutto il suo posizionamento.

Le donne che sceglievano il brand volevano sentirsi diverse e farsi ammirare in camera da letto, volevano generare una reazione ben precisa nei loro partner. Quell’intimo trasudava sensualità.

Victoria’s Secret una volta vendeva attrattività.

Oggi vende mutande e reggiseni.

Come tanti altri marchi, più o meno indifferenziati.

Le vendite che ancora fa, vivono di rendita dei tempi d’oro, ma i dati economici sono lampanti.

Anno dopo anno, da quando hanno abbandonato sfilate e abbracciato la filosofia inclusivista, hanno perso in termini di fatturato e di valore azionario.

Tutto questo per dire cosa?

Che oggettificare la donna con intimo volutamente sexy è scorretto?

No, ovviamente.

Spero che a nessuno venga la tentazione di rispondere con commenti sull’onda del “ogni donna è bella così com’è”. Significa che non avete capito una beata mazza del topic di questo articolo.

Quello che cerco di dimostrare con questo esempio è che il copy che funziona non è fatto di trucchetti di scrittura, artifici stilistici, buone penne e cialtronaggini varie che provano a rifilarti.

Un copywriter che ha un impatto oggettivo sulle tue vendite deve essere abbastanza competente ed esperto in termini di posizionamento da saperlo individuare, creare e trasmettere all’interno di tutti i suoi materiali.

Devi essere disposto a combattere per il tuo target. Ad essere polarizzante.

Ad avere il coraggio di dire: 

“Questo è quello che facciamo noi. Questo è quello che vendiamo. Se vuoi qualcosa di diverso, ti consiglio di andare ai grandi magazzini”.

Il “facciamo tutto per tutti” è morto 60 anni fa e il tuo copy deve prenderne atto e saperlo riportare in tutti i tuoi materiali di marketing.

Caso di riposizionamento per inclusività #2: Bud Light

Una delle cose che cerco sempre di spiegare ai nostri clienti è che il copy non si scrive in astratto. Non viviamo in un mondo privo di concorrenti e di pregiudizi. 

I nostri materiali di marketing devono sempre, in qualche modo, deposizionare i nostri competitor.

Devi saper spiegare al tuo cliente perché scegliere la tua offerta e NON quella dei tuoi concorrenti.

Qualche giorno fa, nel gruppo Facebook di Propagando, raccontavo della perdita miliardaria della Bud, passata, grazie all’ennesima geniale campagna woke, dall’essere la “birra dell’uomo rude che griglia” alla “birra per giangi”. 

6 miliardi persi in 5 giorni per colpa di qualche fenomeno del marketing che ha avuto la “pensata” del giorno

Dopo aver raggiunto un massimo di 66,73$ per azione, la società madre di Bud Light, Anheuser Busch Inbev, ha perso più di 6 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato da quando ha annunciato la sua partnership con la 26enne “influencer” transgender Dylan Mulvaney il 2 aprile.

La capitalizzazione di mercato della società è scesa fino a 125,7 miliardi di dollari, in calo rispetto ai 132,8 miliardi di dollari di sei giorni prima, un calo di oltre il cinque percento.

”Nessuno a livello senior era a conoscenza di ciò che stava accadendo”, ha detto una fonte interna, a cui è stato concesso l’anonimato per argomenti delicati. 

”Alcuni addetti al marketing di basso livello che aiutano a gestire le centinaia di contatti con gli influencer devono aver pensato che non fosse un grosso problema . Ovviamente lo era, ed è un peccato perché hanno una meritata reputazione di essere solo la birra americana, non un’azienda politica. È stato un errore.”

Una seconda fonte ha anche affermato che un dipendente di livello inferiore aveva preso la decisione di includere Mulvaney nella campagna, una mossa che sembra essere costata alla società 5 miliardi di dollari di valore di mercato.

Il contraccolpo all’iconico marchio di birra americano è stato così intenso che un distributore Budweiser nel Missouri ha annullato un evento con i famosi cavalli Clydesdale dell’azienda perché tutti sono “ancora sensibili” alla questione.

Ciò avviene dopo che il vicepresidente del marketing dell’azienda ha fatto sapere che la sua volontà era rendere il marchio più “inclusivo”.

Proprietari di bar e distributori hanno segnalato subito un forte calo delle vendite di Bud Light dal lancio della campagna.

Secondo John Ruch, cantante di musica country e proprietario del bar Redneck Riviera a Nashville, TN, Bud Light era la loro birra più popolare .

I clienti decidono. I clienti sono i re“, ha detto lunedì al conduttore di Fox News Tucker Carlson. 

Ho un bar nel centro di Nashville che si chiama Redneck Riviera. La nostra birra più venduta fino a pochi giorni fa era cosa? Bud Light. Ne abbiamo casse e casse e casse lì dietro. Ma negli ultimi giorni, è difficile trovare qualcuno che ne ordini una. Quindi, come imprenditore, dico, ehi, se non la ordini, dobbiamo mettere qualcos’altro qui. Alla fine, questo è il capitalismo.

Grazie al ca…, amici.

La Bud è la birra dell’uomo americano che griglia nel giardino sul retro. Del camionista che se ne beve due pinte alla tavola calda lungo la Route 66. Del dopolavoro quanto stacchi con i colleghi e vai a farti una birra prima di tornare a casa.

Non esattamente il genere di persone che amano essere associati al concetto di “trans”.

Questo è quello che succede quando vengono lanciate campagne ad mentula canis, ignorando i principi più basilari del buon senso e del posizionamento.

Ma continuiamo pure con questa filosofia woke a cui i clienti trovano “difficile rimanere fedeli”.

Lo dimostrano votando con i loro portafogli.

Milioni di americani conservatori, che decisamente non si rivedono proprio nell’ideologia woke, si sono improvvisamente trovati orfani della loro birretta preferita.

Nessuno in Alabama (stato noto per non essere tra i più progressisti, per dirla con un eufemismo) osa più comprare una Bud: per tutti, adesso, è la birra dei trans.

Non male come risultato, in meno di poche settimane, per la birra storicamente più venduta degli USA.

Siccome però mi piace non solo mostrare gli errori, ma anche evidenziare casi virtuosi, voglio farti vedere questa chicca.

Mi sono imbattuto in una bellissima Video Sales Letter per il lancio della Conservative Dad’s Ultraright Beer, la birra per i conservatori di destra.

Dura meno di un minuto, per cui guardarla non ti ruberà tanto tempo.

Fai attenzione in particolare al fatto che:

  • non si parla MAI delle qualità della birra;
  • non si accenna MAI alla solita storia trita e ritrita che “rinfresca”;
  • non si racconta la storia dell’antica ricetta perduta del trisavolo resuscitato.

Il copy qui è pura espressione del posizionamento

Questa è la birra per chi non vuole cedere all’ideologia “gender free”, per chi ancora vuole sentirsi uomo quando va al pub a farsi un goccetto o quando griglia in giardino con gli amici.

In questo caso il livello di consapevolezza è talmente alto che non c’è bisogno di spiegare “perché devi bere la birra”. 

Va dritto al punto.

È un posizionamento che nasce totalmente in contrapposizione ad un competitor: il più forte e il più noto sul mercato, almeno fino a qualche settimana fa.

Il copy usato nella VSL non fa altro che mettere la questione al vertice.

La Conservative Dad’s non è una birra per tutti. 

È solo rivolta all’uomo virile, che vuole ancora sentirsi tale.

  • Target ben definito.
  • Attacco al leader di settore sul suo punto scoperto. 
  • Copy che non si perde in infinite supercazzole e giri di parole.
  • Polarizzazione fortissima.

Risultato: un gioiellino di VSL

Per di più, la birra non esiste nemmeno. Con questa Video Sales Letter stanno facendo cassa per poter avviare la produzione, a riprova che non serve sempre avere i milioni in cassa prima di partire con grandi progetti.

C’è poco da stupirsi che in meno di un mese, grazie a quell’unica campagna, creata con un angle di attacco perfetto al leader di settore, ha già raggiunto un milione di dollari di vendite, anzi di prevendite, mentre le vendite di Bud Light, che insiste con la sua strategia di comunicazione woke, hanno avuto un calo del volume del 24% nella settimana terminata il 15 aprile, stando alle più recenti rivelazioni di NielsenIQ.

Non so se ti rendi conto, cosa significa perdere 1/4 di vendite del segmento per un’azienda che fattura una cinquantina di miliardi di dollari…

Come al solito, conoscere i meccanismi decisionali e i bias dei clienti ti dà un vantaggio incredibile nel prevedere gli andamenti delle campagne.

Ecco perché il neurocopy vince. Sempre!

Ecco perché in Propagando, prima di iniziare a buttar già una sola parola, tutti i nostri clienti sanno che devono passare per una fase consulenziale dove fissiamo (o li aiutiamo a trovare) i pillar del loro posizionamento: gli elementi fondanti su cui si basa.

Solo così possiamo costruire una copy strategy in grado di parlare la lingua dei tuoi clienti e che ti porti le vendite che ti aspetti e meriti.

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