Tempo fa ho visto Nirvana, di Gabriele Salvatores.
La trama è simile ad altri film che mischiano vita vera e videogiochi, tipo Il tredicesimo piano e Free Guy.
È del 1997, veloce quanto Il Signore degli Anelli messo a rallentatore e con lo stesso livello di effetti speciali de Il pianeta delle scimmie (per intenderci, la versione del ’68, in cui le scimmie sono interpretate da uomini che indossano costumi realistici quanto i travestimenti di carnevale comprati dal cinese).
Uno dei protagonisti, interpretato da Diego Abatantuono, si accorge di non essere niente di più che il personaggio di un videogioco, quindi non reale.
È un virus, perché ovviamente i personaggi di un gioco non hanno una propria coscienza: fanno quello per cui sono programmati e basta.
Proprio come in Truman Show, il protagonista si accorge che la sua vita è pilotata da qualcuno là fuori.
Il personaggio interpretato da Abatantuono, in Nirvana, condivide questa presa di consapevolezza con altre persone e cerca di dargli le prove che nessuno di loro esiste, che in realtà sono stati inventati per il mero intrattenimento di qualcuno e si muovono in modo automatico, in risposta ai tasti che qualcuno preme.
Ora, far capire questo agli altri personaggi non gli viene facile.
Mentre è alle prese con un gruppo di cacciatori di organi che gli blocca la strada (era la sfida del livello in cui era entrato) ecco un egregio tentativo di svegliare la coscienza dei balordi criminali.
“So che per voi è una prassi prenderci, farci a pezzi e vendere gli organi al mercato nero. E vi capisco anche. Però cercate di seguirmi in questo ragionamento.
Noi siamo parte di un gioco. C’è gente che ci trova gusto a farci andare l’uno contro l’altro. Si divertono con noi.
Allora, spiazziamoli!
Provate a fare una cosa diversa dal solito!
Invece di ammazzarci, lasciateci andare, no?
Una volta. Per cambiare. No?”
Ora, nel film, la spinta incontrollabile a comportarsi in un dato modo era dovuta alla programmazione inserita dagli sviluppatori del gioco, che rendeva le mosse dei personaggi facilmente anticipabili.
Non è che noi funzioniamo in modo poi così diverso…
Nel nostro mondo, a rendere così prevedibili le nostre decisioni e azioni ci pensano i bias: i meccanismi decisionali che si innescano in automatico nel nostro cervello e che di fronte a una scelta ci mettono in una sorta di pilota automatico.
Nel film, com’era prevedibile, a Diego non va bene.
I bia… ehm, il programma dei cacciatori di organi è stato più forte. Gli sparano e lui ricomincia daccapo, come ogni volta che viene fatto fuori.
Questa storia te l’ho raccontata perché un programma installato non si può cambiare semplicemente dicendo al “programmato” che non sta decidendo consapevolmente le sue mosse.
E fuori dal film, è uguale!
I bias regolano il nostro modo di decidere, che ne siamo consapevoli o no.
E vale anche per i tuoi clienti.
Il Kirwan Institute For The Study Of Race And Ethnicity dell’Ohio State University definisce questi pregiudizi così:
“Si tratta di atteggiamenti o stereotipi che influenzano la nostra comprensione, le nostre decisioni e azioni in modo inconscio. Questi pregiudizi impliciti che tutti abbiamo non sono necessariamente in linea con le nostre convinzioni dichiarate”.
Nell’articolo Everyone Is a Little Bit Biased pubblicato su American Bar Association, Karen Steinhauser, avvocato e giudice con 40 anni di esperienza, racconta di aver iniziato ad analizzare come i pregiudizi influenzassero il suo lavoro e la sua vita quando ha iniziato a insegnare abilità di difesa.
Molti pregiudizi identificati erano per esempio associati agli stereotipi: gli insegnanti erano troppo morbidi, ingegneri e scienziati troppo rigidi, le persone anziane troppo giudicanti, i giovani troppo immaturi. Queste erano le parti consce del nostro cervello al lavoro, cioè pregiudizi espliciti.
E quelli impliciti?
Per iniziare, dobbiamo essere disposti ad ammettere di averne, e se pensi di esserne in qualche modo immune (o sei semplicemente curioso), l’Università di Harvard ha sviluppato un test per misurare i pregiudizi impliciti in circa 28 diverse categorie. Lo trovi QUI.
Per quanto possiamo identificare e interrompere i nostri pregiudizi, dobbiamo in qualche modo metterci l’anima in pace sul fatto che tutte le persone che ci circondano ne sono pieni.
Ecco ciò che rende la creazione dei tuoi pezzi di copy un processo delicato da progettare studiando e applicando principi di neuropsicologia, non lasciandosi guidare dai lampi di creatività.
La sfida, quando parli ai tuoi clienti, è determinare quando dire qualcosa, come dirlo e a chi.
Questi meccanismi non sono nella nostra mente per renderci la vita difficile, anzi.
Sono lì con tutte le buone intenzioni di difenderci da ciò che ci appare come una minaccia. E chi è diverso da noi, secondo il nostro cervello, rientra tra questi.
David Amodio, professore associato di psicologia e scienze neurali alla New York University, nel suo articolo The Neuroscience of Prejudice and Stereotyping dice:
“La capacità di discernere ‘noi da loro’ è fondamentale nel cervello umano”.
È per questo che quando parli al tuo cliente devi fargli percepire che sei nello schieramento giusto: il suo.
Rappresentazione grafica di “stesso schieramento”
Una volta collocato nella schiera “dei suoi”, ricorda che hai tanti altri bias (o programmi, per restare nel linguaggio dei videogiochi) che guidano le sue scelte da ben prima che tu iniziassi a cercare di smontare quegli ingranaggi.
Non basta quindi dirgli “compra”, non basta avere prodotti e servizi di qualità, non basta scrivere un solo articolo come copy comanda per sperare di cambiare di colpo meccanismi decisionali che il tuo cliente segue da una vita.
Il neurocopy lavora con costanza e in modo sottile.
Nel profondo, pian piano, indisturbato fa il suo lavoro.
Come le piogge che nel lungo termine corrodono persino le rocce, ma che nel breve periodo non sembrano altro che una bella lavata.
Questi interventi mirati ma costanti sono quelli che in silenzio ti permettono di creare e rafforzare il tuo posizionamento, di accompagnare il tuo lettore a conoscerti, a fidarsi, a riconoscerti come un’autorità nel tuo settore.
Molti pensano che si possa fare a meno di una copy strategy complessiva, che basti “ingaggiare” un copywriter per dei pezzi importanti. Qualcosa che resta sempre a vista nel sito, o la landing page di un prodotto importante, le mail di un funnel a cui si tiene in modo particolare o un gruppetto di articoli e basta tanto per far vedere che c’è qualcosa nel blog.
Il copywriting riesce però a fare davvero il suo lavoro quando lavora in modo costante, ribadendo i punti fermi che ti rendono diverso e non mollando la presa.
Di certo nel marketing a risposta diretta devi essere in grado di misurare quanto un singolo pezzo converta.
Se prepari il testo di una sponsorizzata, ti serve monitorare quanti ti lasciano il contatto.
Se scrivi un articolo, ti serve capire quanti ti cercano dopo aver letto.
Se scrivi una sales letter, ti serve sapere quanti comprano.
Non esiste però un unico pezzo della vita, l’opera maestra del copy che ti farà arrivare nuovi clienti vita natural durante.
Il motivo è quello che ho detto sopra.
Siamo come programmati, e un programma non si disinnesca di botto con un unico lampo di consapevolezza “imposto” da qualcuno.
Insomma, a nessuna azienda basta un articolo fatto bene in occasione del lancio di un nuovo progetto.
Per riuscire a costruire un brand forte, il copy deve essere progettato a tavolino e deve seguire un percorso strategico.
A questo serve una copy strategy, e va creata sulla base dei principi psicologici che ci portano a scegliere a cosa credere e a cosa no. Di chi fidarci e di chi no. Da chi comprare e da chi no.
Questo è quello che facciamo in Propagando e che possiamo fare per te.
Per avere la tua copy strategy progettata come neurocopy comanda, QUI trovi le condizioni per lavorare insieme.