Molte delle parole più belle iniziano per A.
Amore.
Amicizia.
Affetto.
Alasagna.
Se esistesse il dio dei golosi, le lasagne sarebbero di sicuro una sua invenzione. Difficile immaginare un piatto più ricco, appetitoso, ruffiano, seducente.
Le lasagne non sono carboidrati. Sono distributori automatici di felicità.
Soprattutto se le prepara la nonna.
In Italia c’è una sorta di equazione metafisica per cui le lasagne stanno a nonna come la felicità sta alle lasagne.
Sono un classico della cucina emiliana che dall’Emilia, terra di “sfogline”, si è estesa in tutta Italia.
Ma non esistono due case, due ristoranti o due gastronomie che le preparino allo stesso modo. Perché nonostante gli ingredienti standard, le varianti e i segreti di famiglia sono infiniti.
E le lasagne di nonna hanno una formula segreta che manco quelli della CocaCola custodiscono così gelosamente.
Che bone le lasagne.
Peccato che a prepararle ti serve almeno un giorno e mezzo. Sei ore di ragù che pippita sul fuoco. Poi burro, latte, farina e noce moscata per fare la besciamella. Uova e altra farina per fare la sfoglia.
Assembla tutto. Cuoci al forno. Fagli fare la crosticina. Rubane un po’ senza farti sgamare. E poi lasciale là, se ci riesci. Che lo sanno tutti che le lasagne sono più buone il giorno dopo.
Io non ti perdono, ma ti capisco se una volta hai fatto un patto con Satana e sei caduto nella tentazione di prendere quelle precotte del supermercato per risparmiarti lo sbattimento.
Avevi voglia di casa. Ci sta. È comprensibile. Non perdonabile, ma comprensibile.
Sei entrato all’Esselunga, hai visto la confezione nel banco frigo e ti sei sentito per un attimo Bilbo Baggins quando deve lasciare l’anello a Frodo.
Ora, posto il fatto che sei una Bestia di Satana e che devi fare per otto giorni il cammino di Santiago tra le trattorie dell’Emilia per espiare i tuoi peccati, diamo un’occhiata su cosa potrebbe essere caduta la tua scelta.
Se penso alle lasagne precotte (perdoname nonna por mi pensiero impuro), mi vengono in mente giusto due o tre brand.
- Buitoni.
- Findus.
- Rana.
A te ne viene qualche altro?
Ti lascio qualche riga per pensare.
…
…
…
Niente?
Nada de nada?
E se ti dicessi Colgate?
Sì, quelli dei dentifrici.

Lungi da me riuscire a comprendere i motivi per cui un noto brand di prodotti per l’igiene orale abbia avuto l’idea di cimentarsi a creare un piatto di lasagne.
Non credo che l’opzione “ci metto tanto aglio nel ragù così poi hanno bisogno di lavarsi i denti” fosse il vero piano malvagio del board aziendale.
La prima volta che ho visto quella foto ho pensato a una di quelle trollate che girano su Facebook. Con un certo sconcerto ho poi scoperto che l’azienda ci aveva veramente investito milioni in produzione, distribuzione e campagne pubblicitarie.
Il risultato?
Beh, se capiti a Helsingborg, in Svezia, potrai vedere in una teca una di quelle lasagne. Forse l’ultima giunta fino a noi (per fortuna).
A custodirla è il Museo del Fallimento ideato da Samuel West, psicologo da sempre appassionato di fallimenti commerciali.
Insomma, hai già capito com’è andata a finire la storia delle Lasagne Colgate.
C’è una foto abbasta rappresentativa dell’immediata associazione mentale che si è creata nella testa di chiunque abbia associato Colgate alle lasagne.
Sul darci una ragione dietro a un’iniziativa simile, Al Ries e Jack Trout vengono in soccorso con il loro libro Le 22 immutabili leggi del marketing.
“Se violare una delle nostre leggi fosse un reato, un gran numero di aziende americane sarebbe in galera. Per ora, la legge più violata del nostro libro è la legge dell’estensione di linea.
[…] Un giorno un’azienda è strettamente focalizzata su un singolo prodotto altamente remunerativo. Il giorno dopo la stessa azienda si è allargata su tanti prodotti e perde soldi.”
Chi è consapevole di godere di una certa autorità nel proprio settore, facilmente potrebbe cadere in un ragionamento del tipo “il mio nome è una garanzia, l’ho dimostrato e il mio pubblico lo sa. Quindi, se ora propongo anche quest’altro prodotto, il mio stesso pubblico automaticamente lo accoglierà per il semplice fatto che sono io a proporlo”.
Non è così scontato.
Se, lallero.
Regola base, livello marketing 101 per principianti.
Se sei l’autorità di un settore, sei l’autorità di QUEL settore.
E basta!
La tua autorità non trascende e non travalica i confini del tuo campo di esperienza.
Questa caustica sentenza che, per una volta, non lascia spazio al dubbio o all’eccezione, semplicemente ti ricorda che sei ti sei conquistato (o stai lavorando per raggiungere) il ruolo di autorità per un settore, non puoi appiccicare il tuo nome o quello del tuo brand a qualunque altra categoria ti passi per la mente, dando per scontato di ottenere lo stesso effetto nella mente del tuo pubblico.
O meglio, dipende cosa è l’altro prodotto che stai aggiungendo e, soprattutto, per cosa sei conosciuto tu.
Prendi Nonno Nanni. Si occupa di formaggi e per questo è conosciuto in tutta Italia.
Se da domani estendessero la loro linea con il prosciutto cotto, la reazione inevitabile sarebbe:
“Scusa un momento! Questi sono quelli dello stracchino! Da quando sanno fare il prosciutto? Hanno montato un mattatoio nella notte tra un impianto di coagulazione e l’altro? Gli avanzava personale per mungere e lo hanno messo a fare salsicce?”
Anche se il tuo nome è una pietra miliare del tuo settore, se proprio vuoi estendere la linea, devi comunque restare non solo nel tuo settore (alimentare, in questo caso), ma nella tua categoria merceologica (i formaggi!).
E ti dirò di più.
Se ti sei ricavato un posizionamento forte in una micronicchia (tipo i formaggi di capra, tanto per continuare sulla scia di prima), non puoi usare lo stesso brand per vendere quelli di latte di vacca.
Se stai pensando di esserti auto condannato a lavorare con lo stesso identico prodotto per tutta la tua esistenza, non deve essere per forza così.
Se di colpo in bianco ti è salita la scimmia di voler vendere prosciutti e affettati, puoi farlo. Non è vietato dalla Polizia dei Formaggini.
Ma devi farlo con un altro brand. Un altro naming. Un altro copy.
Altrimenti finisci per passare come quei cialtroni della formazione che un giorno ti vendono il corso di copy, il mese dopo il corso per fare le sponsorizzate, quello dopo ancora quello per creare infoprodotti da quattro soldi, ecc.
Esperti di tutto = Esperti di niente
Se invece vuoi creare a tutti i costi un solo brand per vendere entrambi i prodotti, potresti studiare un posizionamento da “selezionatore”.
Il focus del brand non sarà più sul prodotto, ma sulla capacità di scoprire, selezionare e distribuire prodotti gastronomici di rara qualità.
Ok. Lo ammetto.
Sta storia dei prosciutti e formaggi l’ho tirata fuori dopo che su Instagram ho visto questa sponsorizzata.

Tralasciando il fatto che se il mio cognome fosse cotale, abbandonerei l’idea di utilizzare suddetto patronimico come brand name… (sigh), nessuno trova insensato che l’azienda Tro*a Formaggi (devo pure scriverlo censurato o Google mi penalizza per linguaggio scurrile) venda e selezioni prosciutti?
Magari io, quando vado a fare la spesa al mercato, seleziono gli ingredienti con un occhio da cagacaz*i che Cracco levate. Ma ti assicuro che 3/4 di quelli che conosco legge Tro*a formaggi e afferra il bottino pensando di essersi aggiudicato un caciocavallo, per poi scoprire l’infame inganno solo a casa.
110 articoli – 1 messaggio
Il discorso di focus non vale solo in termini di expertise e di prodotto.
Lo stesso identico concetto deve essere alla base dei tuoi pezzi di copy.
Una volta definito il tuo posizionamento, il copy di TUTTI i tuoi materiali di marketing deve lavorare per confermarlo e consolidarlo.
L’efficacia del copy, in termini di posizionamento, è quello di una goccia che scava la roccia: se vuoi che il tuo messaggio di marketing attecchisca e metta radici nella mente del tuo cliente non basta piantare il seme una sola volta. Devi innaffiarlo. Goccia dopo goccia.
Ci vuole tempo.
Se invece cambi messaggio e punto di attacco ogni 3×2 perché sei preso dalla smania di voler provare nuovi modi per irretire i tuoi clienti, stai semplicemente diluendo l’efficacia del tuo posizionamento.
Per questo ti basta far scrivere i tuoi pezzi a qualsiasi imbrattacarte, non ti serve un neurocopywriter.
Senza andare molto lontano con gli esempi, ti basti guardare il lavoro che da tre anni portiamo avanti con Marco qui, con gli articoli di Propagando.
Ormai ci sono sono oltre centodieci articoli che spiegano in centodieci modi diversi come lo studio e lo sfruttamento dei bias e delle euristiche possano servire per far arrivare il tuo messaggio di marketing al cuore del sistema decisionale del tuo cliente in modo molto più efficace ed elegante di quel copy cialtrone da infoprodottari.
Gli articoli sono 110, ma il messaggio è sempre quello.
110 modi diversi per ribadire un solo posizionamento: il copy che vende DAVVERO parte SOLO dallo studio dei meccanismi decisionali e dei pregiudizi cognitivi del tuo cliente.
Se qualcuno dovesse pensare che negli uffici di Propagando progettiamo i materiali per i nostri clienti indossando camicia e bretelle, passeggiando con una mano in tasca e un basco in testa, facendo cerchi di fumo con la pipa mentre giochiamo allo sparacazzate (aka, brainstorming) per trovare l’idea più creativa… ecco, quella persona sicuramente non deve aver mai letto un nostro articolo.
Ma il focus nel copy non è solo rivolto al prodotto.
Anche il target deve essere sempre chiaro e immutabile.
Propagando si rivolge SOLO agli imprenditori che hanno quel quid di grano salis in più della media dei loro colleghi e non cadono vittima delle promesse da fantagonzi tipo “scopri il 7 segreti + 1 per raddoppiare il fatturato con il copy grazie a [inserire minchiata a piacere]“.
Lo so che c’è un pubblico lì fuori pronto, con i soldi in mano, che mi coprirebbe di dollaroni e bonifici se oggi gli dicessi che mi metto ad insegnare come scrivere neurocopy.
L’anno scorso, per il Pesce di Aprile, avevo fatto un annuncio scherzoso sul nostro gruppo in cui davo la possibilità di partecipare ad un corso fittizio del costo di 2500€ a chiunque avesse scritto in privato su Facebook a Marco per avere i dati a cui bonificare. Giusto per rompergli le balle.
In un solo pomeriggio gli hanno scritto in venti.
VENTI!!!
Venti tizi che avrebbero pagato 2500€ per fare un corso con noi. 50.000€ per un weekend.
Non è sto granché, ok. Ma non sono nemmeno bruscolini.
Pensi che per questo abbiamo ceduto e ci siamo fatti invogliare?
Manco per idea.
Il nostro posizionamento è chiaro: non vendiamo copyfuffa per gonzi. Sappiamo che non è possibile formare qualcuno a livelli minimamente accettabili per il nostro settore in un weekend o rifilandogli una serie di libretti scopiazzati da chissà quale altro spacciatore di corsi oltreoceano.
50mila euro non valgono nemmeno lontanamente la distruzione o la diluizione del posizionamento che abbiamo costruito con così tanta dedizione.
Quel giorno avrò pur perso dei soldi, ma ho continuato a guadagnare e a meritare credibilità di fronte agli occhi del target a cui mi interessa rivolgermi: quello di Imprenditori con “i” maiuscola. Quelli che non si fanno intortare da irrealizzabili promesse accalappiagonzi.
Ma provo quasi un senso di vergogna a prendere Propagando stessa come esempio. È una cosa che non faccio mai e che non farò mai più. Ma in questo caso, la storia era troppo attinente per non essere usata.
Meglio quindi prendere in esame un vero caso virtuoso di copy che in più di un secolo e mezzo è riuscito a costruire e confermare un posizionamento chiarissimo agli occhi del suo pubblico.
The Economist: 178 anni, un solo focus
La rivista The Economist esiste dal 1843, anno in cui fu fondato da James Wilson, economista e parlamentare britannico fautore del liberismo.
Fin dai suoi esordi, il giornale non ha mai fatto mistero che i suoi articoli sono pensati per “menti dagli ingranaggi ben funzionanti”.
Più nello specifico, sono contenuti per persone di successo o che ambiscono ottenerlo.
Questo è il loro focus e non hanno mai dimenticato di farci girare attorno brevi ma focalizzatissime headline.
Te ne riporto qualcuno. La maggior parte di quelli che leggerai, è stata partorita dalla mente di David Abbott, considerato dai più uno dei migliori copywriter per advertising della storia.
Money talks, but sometimes it needs an interpreter.
I soldi parlano, ma a volte hanno bisogno di un interprete.
Per iniziare, in 8 parole è chiarissimo a che serve l’Economist e qual è la promessa. I soldi parlano e l’Economist ti spiega nella tua lingua cosa stanno dicendo.
It’s lonely at the top, but at least there’s something to read.
Ci si sente soli in cima, ma almeno c’è qualcosa da leggere.
Ogni scalata verso l’alto lascia indietro sempre più persone che non riescono a salire su con te. Per forza di cose alla vetta non troverai lo stesso numero di persone che partono dalla falda della montagna.
Se sei uno di quelli che arriva in alto, è vero, non avrai la stessa compagnia di chi è rimasto giù, ma almeno hai qualcosa da leggere fatto apposta per persone del tuo stampo.
In real life, the tortoise loses.
Nella vita reale, la tartaruga perde.
Poco perbenismo.
Nelle favole con cui siamo cresciuti la tartaruga pian pianino procede verso il traguardo e vince, come premio per la sua perseveranza.
Per non parlare del mantra popolare “chi va piano va sano e va lontano”.
The Economist non condivide l’approccio e lo rende chiaro senza mezzi termini.
Se vuoi arrivare in alto, se vuoi arrivare primo, non puoi andare a passo di tartaruga. Devi correre più degli altri. E L’Economist ti mette le ali ai piedi.
Want to go far? Sometimes a newsagent can be more helpful than a travel agent.
Vuoi arrivare lontano? A volte un giornalaio ti può aiutare più di un agente di viaggi.
Di nuovo. L’Economist ti aiuta a raggiungere livelli dove non sei mai stato.
Who gets the office copy first? precisely.
A chi va la prima copia dell’ufficio? Appunto.
Questo potrebbe non essere così chiaro ad una prima lettura. Effettivamente è un po’ sottile.
Nella cultura da ufficio americano, la prima copia dei giornali, in genere, va al boss. Quindi…
“Enocomsit rdeeras avhe lradaye wrkode ti uot.”
C’è scritto, con ordine di lettere alla rinfusa, “I lettori dell’Economist hanno già capito”.
Della serie “i nostri lettori sono i più intelligenti”.
Questo è copy per advertising, uno stile molto diverso da quello di cui potresti avere bisogno ora, ma dovrebbe comunque esserti chiaro il concetto che cerco di dimostrare dall’inizio di questo articolo.
Se vuoi che il tuo copy diventi efficace in termini di posizionamento, devi ribadire sempre lo stesso messaggio. Ma in 110 modi diversi.
È vero, gli si è rotto il disco sul concetto, ma non sul modo di ficcartelo sempre di più in testa: solo persone dotate di una certa intelligenza leggono l’Economist.
“I never read The Economist.” – Management trainee, Age 42.
Non leggo mai l’Economist. Firmato: tirocinante, 42 anni.
Chapeau.
Di nuovo il concetto di rivista per persone che galoppano, con l’aggiunta di una leva leggera quanto il piombo sulla paura di non avere successo.
Per intenderci, per la società e per la stragrande maggioranza di persone, il successo è legato alla carriera, a posizioni di un certo tipo e all’età in cui si conseguono tali ambiti risultati.
È difficile che chi sogna di lavorare ai piani alti speri di arrivare a tali prestigiosi incarichi dopo i 42 anni.
Chi non è minimamente toccato dalla scalata sociale, dall’essere un numero uno nel management e non gli importa a che età questo obiettivo si realizzi, non sarà minimamente sfiorato da un titolo simile.
E per l’Economist non è un problema se quella persona non rientra nel suo cliente target.
Il potere del focus ti dà la libertà di poter tagliare fuori tutte le persone a cui non hai interesse a parlare.
Quando ignori segmenti di pubblico consistenti, non ti stai davvero privando di potenziali clienti.
Ti stai privando di potenziali clienti che però non sarebbero mai diventati tuoi clienti paganti, nonostante gli sforzi immani che avresti speso per riuscire a convertirli.
È controintuitivo. La tentazione di far contenti tutti e di piacere a tutti è forte. Ma come ci suggeriscono anche le frasi dei Baci Perugina, less is more.
Meno clienti, sono più clienti.

A poster should contain no more than eight words, which is the maximum the average reader can take in at a single glance. This, however, is a poster for Economist readers.
Un cartellone non dovrebbe contenere più di otto parole, che è il massimo che il lettore medio può capire dandogli una sola occhiata. Questo, tuttavia, è un poster per i lettori dell’Economist.
Di nuovo sulla scia del “i nostri lettori sono i più intelligenti”. Chi legge questa rivista non ha certo il livello d’attenzione dell’uomo medio da cui si ricavano le statistiche.
Adoro quest’ultimo esempio. Ci ricorda che nel marketing le regole esistono e il più delle volte è bene seguirle, ma solo se hai chiari i meccanismi decisionali dei tuoi clienti su cui si basano.
Uno bravo nel neurocopywriting, può anche decidere di stravolgere o ignorarle in casi specifici, se lo studio che ha fatto sui fattori decisionali del suo target glielo permette.
Rompere le regole con cognizione di causa è un modo diverso di applicare quella stessa regola.
Sai perché imitare o copiare famosi pezzi di copy, che hanno convertito in termini di milioni, non funziona MAI nel tuo settore?
Perché non conta un caz*o quello che scrivi. Non sono le parole. Non è la struttura del pezzo. Non è la headline che ha funzionato.
È la capacità di comprendere gli schemi decisionali del tuo target, anticiparne specifiche obiezioni e paure, trovare punti deboli nel loro sistema di difesa dalla pubblicità e inserirvici con il copy dei tuoi materiali di marketing.
Questo è fare neurocopy.
E non si impara in un corso di un weekend.