Copysicologia: aiuta il tuo cliente a conoscere sé stesso e lui ti amerà

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Prendi un corso di copywriting.

Uno a caso, tanto sono tutti più o meno uguali e scopiazzati tra loro.

Primo modulo: creazione dell’avatar.

Devi definire il profilo della “buyer persona“. Il cliente ideale. L’ologramma del tizio a cui ti vuoi rivolgere con il tuo marketing.

Ti hanno detto che il copy funziona meglio se riesci a rivolgerti a una persona concreta, invece di scrivere verso un generico qualcuno non meglio definito.

E allora ti metti lì a inventare tutta una serie di caratteristiche più o meno inutili.

“Il mio cliente ha 33 anni. Indossa orrende camicie a quadri con le bretelle e calzini di spugna. Vive da solo, nella casa che ha ereditato dalla nonna. Lavora come addetto allo sportello presso l’ufficio postale di Cavergnano di Sotto.

È vagamente insoddisfatto della sua vita e non si capacita del perché non riesca a trovare una donna con cui avere una relazione stabile. Forse è per via dei calzini di spugna? Si consola giocando ai videogame 9 ore al giorno. Il piatto più complicato che riesce a cucinare è il pollo al limone. La sua paura più profonda è perdere la connessione con il wi-fi.”

E decine di altre inutili informazioni che per la stragrande maggioranza non servono a niente, se non a illudere il povero apprendista copy che sta facendo qualcosa di vagamente utile.

Premessa: non sto dicendo che un lavoro di analisi sul cliente sia una cosa da evitare. Al contrario.

È proprio l’ABC del nostro lavoro. Anzi, è la A e basta.

Solo che la storia è un tantinello più complicata e raffinata di quella che abbiamo appena visto e presuppone un’indagine e una preconoscenza dei meccanismi decisionali molto più profonda e dettagliata.

Alcune risposte, come quella alla domanda “qual è la più grande paura del tuo cliente” non sono per niente scontate.

Un imprenditore, di base, non può saperlo per forza. Non è il suo lavoro essere un esperto di psicologia comportamentale

E non puoi chiederlo nemmeno al cliente.

Darti una risposta vera gli richiederebbe un livello di introspezione che potrebbe anche essere doloroso. E non è affatto probabile che voglia confidare ad un estraneo le sue debolezze e le sue paure più profonde.

Quindi di fronte alle solite indagini di mercato di rifila una risposta politically correct tipo “ho paura che il mio lavoro non mi permetta di esprimere pienamente le mie potenzialità” e tu pensi che sia una persona ambiziosa e coraggiosa che ha bisogno di essere motivata.

Ma quello che in realtà vorrebbe dirti è che ha una paura fottuta di guardarsi indietro tra dieci o vent’anni e rendersi conto di aver sprecato la sua vita.

Solo che le stabili sicurezze legate al suo insoddisfacente lavoro lo tengono ancorato alla sicurezza di uno stipendio fisso e gli impediscono di cambiare.

Ha il terrore di vedere i suoi amici e i suoi conoscenti godere di una vita che lui non assaporerà mai e rimanere legato al palo. Escluso dal gruppo.

La solitudine lo atterrisce.

Teme di restare solo più di ogni altra cosa al mondo e si rifugia nei videogiochi online per costruire una parvenza di legame con altre persone.

In poche parole, non è una persona che cerca motivazione, ma rassicurazione.

Motivarlo sortirebbe l’effetto contrario.

Lo spaventeresti e lo faresti sentire ancora più insicuro e indeciso. Non gli manca la voglia di cambiare. Ha solo paura di lasciare andare quello che ha.

Solo che se ti fermi alla prima risposta superficiale, questo livello di profondità e comprensione non lo raggiungi manco per sbaglio.

Il tuo copy si limiterà a graffiare la superficie, senza colpire in profondità il cuore del sistema decisionale del tuo avatar.

I clienti non verranno attratti dal tuo marketing.

Le vendite non si realizzeranno.

Il fatturato non salirà.

Il vero problema è che, per quanto possa essere accurata la tua fase di studio, di solito l’analisi di sto benedetto avatar si concentra solo sul punto di vista del venditore

Non sto mettendo in discussione l’importanza dello studio e della fase di ricerca, intendiamoci.

Avere un perfetto identikit e conoscere la psicologia del tuo potenziale acquirente ti dà certamente un vantaggio strategico quando cerchi di comunicare con lui per vendere, perché puoi usare le leve giuste e rendere il tuo copy, e in generale tutto il tuo marketing, più persuasivo. 

MA potresti ottenere mooolto di più, cambiando prospettiva.

Voglio mostrarti nel dettaglio un aspetto che viene spesso ignorato, ma che sono sicuro ti servirà per riuscire a calarti ancora di più nei meandri della mente del tuo cliente target. 

Prevedere i meccanismi decisionali e i drive comportamentali del tuo cliente è “abbastanza” facile. O almeno lo è per un neurocopywriter di Propagando.

Non ti rispiegherò da capo come siamo riusciti ad applicare nel copy i principi della finanza comportamentale che sono valsi il premio nobel per l’economia a Kanheman.

Se ti serve approfondire il discorso, trovi tutto spiegato qui.

Quello che ho la presunzione di volerti spiegare in questo articolo è che conoscere l’avatar del tuo cliente, i bias di cui è “vittima”, gli schemi decisionali e i drive comportamentali è FONDAMENTALE, ma è solo la punta dell’iceberg.

C’è qualcosa di molto più grosso da scoprire sotto il pelo dell’acqua.

Se vuoi fare ‘sti famosi “big money” che ti promettono a destra e a manca agenzie e formatori, devi immergerti nei profondi abissi della neuropsicologia.

È lì che sta il cuore delle decisioni del tuo cliente. È lì che deve andare a colpire il tuo copy. Tutto il resto è fuffa un tanto al chilo.

Disclaimer: la psicologia comportamentale del tuo cliente è parte della psicologia degli esseri umani in generale

Vale a dire anche la TUA.

La lettura di questo articolo potrebbe spingerti a rinchiuderti in una stanza semidepresso, nella contemplazione della fragilità umana. 

Prosegui nella lettura solo se sei convinto che il successo del tuo business valga questo prezzo.




Ancora qui? Oh io ti ho avvertito… Partiamo!

Migliaia di anni di evoluzione e altrettanti studi scientifici ci hanno dato modo di capire una cosa: in quanto esseri umani funzioniamo tutti allo stesso modo quando dobbiamo prendere una decisione. Che sia di acquisto o pure no.

Il marketing è una scienza predittiva

Chiunque abbia il coraggio di dirti che facendo [attività di marketing X] il risultato sarà sicuramente Y è un cialtrone.

Chi di noi opera in questo settore basando il proprio lavoro sulla psicologia comportamentale e sulle neuroscienze è in grado di diminuire sensibilmente il margine di incertezza legato al risultato di una campagna. Questo è indubbio.

Ma non siamo stregoni e non abbiamo la sfera di cristallo.

Quello che possiamo fare è analizzare quante più variabili e meccanismi decisionali possibili, evitando che entrino in contrasto tra di loro, per influenzare l’acquisto del nostro cliente.

Quello di cui ti voglio parlare oggi può sembrare un discorso molto controintuitivo dal momento che ti ho appena detto che “ragioniamo più o meno tutti allo stesso modo“.

Quello su cui voglio portare la tua attenzione è che se dal punto di vista decisionali siamo “tutti uguali”, dall’altro è diventata sempre più presente una cultura dell’unicità molto spiccata.

In altre parole, il tuo cliente è uguale a tutti gli altri, ma VUOLE sentirsene diverso 

Anche se non te lo dirà mai chiaramente, visto che si tratta di un desiderio perlopiù inconscio, vuole che TU lo faccia sentire diverso dagli altri.

Questo vale anche se si tratta della persona più nella media, banale e dai gusti popolari mai esistita sulla faccia della terra.

Praticamente hai di fonte a te Medioman, la quintessenza della mediocrità.

Il compito del tuo neurocopy è dimostrargli che invece dentro di lui si nasconde un Superman, un essere incommensurabilmente raro, senza eguali in tutto l’universo

Il tuo studio dell’avatar può quindi aver rivelato che hai davanti una persona totalmente nella media.

Come magari lo sono io. O come magari lo sei tu.

STOP

Come magari lo sei tu“.

Come ti sei sentito quando hai letto questa frase?

Frustrato? Arrabbiato? Infastidito?

È normale. Ho provato a farti immedesimare in quella che potrebbe essere la sensazione del tuo cliente.

Tu non sei affatto un mediocre (e il fatto che tu sia qui a leggere questo articolo invece di farti abbindolare dalle solite promesse irrealizzabili di qualche guru del copy ne è la prova). Tu sei diverso. Migliore della media. Intimamente lo sai. Lo senti.

Ed è esattamente come vuole sentirsi il tuo cliente: speciale. Unico. Super.

È questo che deve riuscire a fare il tuo neurocopy.

Questo desiderio di sentirci speciali, ha radici in diversi studi psicologici.

Non è mero egocentrismo o vanità. 

Lo psicologo americano George Herbert Mead, autore di Mente, Sé e Società, nel lontano 1934 ha teorizzato che il confronto con gli altri, in particolare quelli che abbiamo intorno nelle prime fasi del nostro sviluppo (genitori, insegnanti ecc…), determina la creazione di un “Sé Sociale”, che diventa la radice della nostra personalità.

Questo Sé Sociale continua ad essere stimolato e arricchito da tutte le nostre interazioni con gli altri.

Infatti, secondo la teoria del looking glass self del sociologo statunitense Charles Horton Cooley, autostima e autoconsapevolezza si fondano non solo sulla nostra percezione di noi stessi, ma su come siamo percepiti dagli altri. 

C’è solo un “leggerissimo problema”: nessuno di noi può sapere cosa gli altri pensino

Quindi il nostro mondo interiore e i nostri meccanismi mentali (inclusi quelli che ci spingono a comprare) sono interamente fondati su quello che PENSIAMO di aver capito del giudizio che gli altri danno di noi. 

Mi rendo conto che detta così fa sembrare l’intera razza umana un branco di complessati e psicopatici, ma… ehi! Questo non è mica il circolo parrocchiale! 

Qui sul blog di Propagando parliamo di neurocopywriting, meccanismi decisionali di acquisto e persuasione. Ravaniamo a mani nude nel cervello, perciò il politically correct non è invitato alla festa. 

Annota quindi questo concetto sul quaderno dove custodisci i tuoi piani per la conquista del mondo: 

Tutti noi costruiamo (e modifichiamo) l’immagine di noi stessi, basandoci sul significato che diamo alle osservazioni e alle valutazioni che gli altri possono fare su di noi

Poi aggiungi a questa equazione il fatto che negli ultimi anni le relazioni umane sono moltiplicate per mille in quantità, ma sono altrettanto diminuite in qualità e profondità, perché spesso avvengono attraverso lo schermo di un computer o di un cellulare.

Abitudini che hanno raggiunto definitivamente lo status di “normalità” nell’ultimo anno, con tutte le restrizioni causate da sto ca**o di covid.

Più comunichiamo attraverso la tecnologia, più ci sentiamo appiattiti nella nostra unicità e abbiamo disperatamente bisogno che qualcuno ci salvi

Se ci pensi un attimo, ti cominceranno a tornare un po’ di cose.

Troverai per esempio una risposta a domande come: “Ma perché la gente se la prende tanto se Tizio o Caio non hanno messo un mi piace sotto un post su Facebook o non hanno visualizzato le ultime stories su Instagram?”.

È presto detto, perché cerca negli altri una conferma di sé stesso, qualcosa che dica: “Ti ho notato! Spiccavi tra tutti!”.

Il tuo cliente cerca con ansia qualcuno che lo aiuti a definire se stesso e lo rassicuri sul fatto di essere unico

E ha bisogno di trovare fuori di sé conferme a quello che percepisce dentro di sé, in modo da poter completare il puzzle traballante della sua autostima.

TAAAAC!

Ecco a cosa mi è servito tutto sto psicopippotto introduttivo. Dovevi conoscere il contesto e il problema, per poter apprezzare la risposta che sto per darti.

Come puoi sfruttare il bisogno di saperne di più su sé stessi nel tuo marketing?

Segui la via della personalizzazione!

I prodotti personalizzati stanno spopolando sul mercato proprio perché offrono al cliente la possibilità di rassicurarlo sul fatto che è unico e diverso da tutti gli altri.


Questa strategia funziona tanto in piccole realtà, quanto in enormi colossi, che ultimamente sfornano serie personalizzate a raffica.

Ti sarà capitato certamente, per esempio, di vedere i barattoli di Nutella o le bottiglie di Coca Cola con i nomi sull’etichetta. 

È la prova che le grandi aziende hanno compreso la voglia del cliente di sentirsi diverso e stanno mettendo in atto strategie di personalizzazione anche quando vendono qualcosa di assolutamente non personalizzabile. 

Un’altra grande azienda che mi viene in mente e che sa il fatto suo da questo punto di vista è IKEA.

Il mobilificio svedese in fin dei conti vende arredi tutti uguali, ma con un elevato tasso di personalizzazione. 

Prima di tutto perché li devi montare da solo, quindi sei spinto a sentirti speciale in quanto capace di capire le istruzioni e metterle in pratica (cosa spesso non proprio così scontata, posso testimoniare che l’ultimo mobile che ho comprato aveva le istruzioni scritte in giargianese antico).

In secondo luogo la possibilità di scegliere colori, dimensioni e dettagli permette a IKEA di pubblicizzare i suoi mobili come completamente personalizzabili anche se sono fatti in serie. 

Esiste infine un vero e proprio movimento degli IKEA hakers, che realizzano versioni customizzate (e spesso irriconoscibili) di questi mobili svedesi. 

Non serve però essere un colosso per applicare questo meccanismo

Molte aziende italiane stanno cavalcando con successo il desiderio di personalizzazione.

È il caso di Shampōra, un nostro cliente che produce shampoo, balsamo e prodotti personalizzati per valorizzare la bellezza dei capelli di ogni donna.

La cliente, prima dell’acquisto, compila un questionario, selezionando la sua tipologia di capelli, le sue abitudini di vita e tutti i dettagli che definiscono i suoi obiettivi a livello di volume, lucentezza, colore, ecc. 

Poi un’intelligenza artificiale crea una formula personalizzata, dosando gli ingredienti in base alle risposte del questionario. Alla fine la cliente riceve shampoo, balsamo e altri prodotti per sua la chioma realizzati su misura con tanto di etichetta personalizzata che riporta il suo nome (un vero tocco di classe).

Un altro esempio, sempre pescato tra i nostri clienti, è Protezione Imprenditori, che propone servizi assicurativi per tutelare tutti i titolari di impresa che hanno a cuore il loro futuro e vogliono proteggere la loro azienda e la loro famiglia in caso di imprevisti.

Le assicurazioni sono un prodotto che di solito, per i clienti, è avvolto nel più fitto mistero.

Quasi sempre si guarda soltanto al prezzo, senza approfondire se la polizza che abbiamo sottoscritto protegge veramente noi, la nostra azienda, il nostro patrimonio e la nostra famiglia da ogni possibile imprevisto. Because shit happens.

Anche in questo caso c’è un questionario da compilare, in cui viene chiesto al cliente di scegliere tra diverse opzioni che lo guidano nella comprensione del rischio a cui è sottoposto.

Alla fine riceve un documento riassuntivo con la sua esposizione al rischio e alcuni suggerimenti pratici oltre alla possibilità, ovviamente, di definire un piano assicurativo con le polizza più adatte alle sue esigenze.

Ti ho voluto fare questi due esempi, tra tanti, perché rappresentano due realtà molto diverse che però sfruttano lo stesso meccanismo.

Lo stesso principio lo abbiamo sfruttato anche per creare la strategia di marketing e scrivere il copy di un altro nostro famoso cliente: Cesare Ragazzi.

Come vedi il principio della personalizzazione funziona sia se parliamo di prodotti che di servizi.

Il risultato però non cambia, il richiamo di “qualcosa fatto apposta per noi” funziona in ogni caso.

Il cliente si sente compreso e viene rassicurato dal fatto che il prodotto che sta per acquistare sarà la soluzione perfetta per lui.

E noi sappiamo bene quanto “fare marketing” voglia dire rassicurare.

In più, il cliente riesce a soddisfare il suo bisogno di unicità che lo fa sentire unico, speciale, diverso da tutti gli altri.

Trova sollievo nella sua ansia di essere giudicato, riceve conferme su quello che pensa di se stesso e, cosa fondamentale, grazie al quiz viene stimolato nella sua curiosità.

È il principio alla base del successo della Gamification

È l’arte di prendere spunto da dagli elementi di intrattenimento tipici dei giochi da tavolo e dei videogiochi per applicarli a contesti che con il gioco non hanno niente a che vedere.

Nel nostro caso, la vendita.

Questo tipo approccio esiste da secoli.

I primi negozianti a usare la gamification pare siano stati dei commercianti americani del Settecento che donavano ai loro clienti gettoni di rame che, una volta accumulati, permettevano di riscattare dei premi.

È il sistema all’origine delle moderne tessere di raccolta punti.

Il fatto è che il marketing non è fatto da strategie eterne, ma i princìpi psicologici e decisionali su cui si basa (o si dovrebbe basare) rimangono immutati da millenni.

Oggi avere una tessera punti non serve certo a rendere più attraente quello che vendi.

Certo, meglio avere dei sistemi per incentivare la clientela a comprare in maniera ricorrente che non averli, ma concorderai con me che quando l’ennesimo negoziante ti propone l’ennesima tessera non è che sprizzi gioia incontenibile da tutti i pori.

Non percepisci più il completamento della collezione come qualcosa di nuovo, divertente e unico. Proprio perché ormai lo fanno tutti.

In questo secolo “gamification” ha quindi assunto un significato molto più ampio:  trasformare la vendita in un momento giocoso, curioso e stimolante. 

Invece di copiare quello che stanno facendo tutti gli altri e trovarti a essere l’ennesimo clone dei tuoi competitor, devi scendere più in profondità.

Andare ad analizzare cosa succede nella mente del tuo cliente, quali sono i meccanismi neuronali sotterranei che governano la psiche.

Solo così puoi elaborare strategie che non passano di moda e rendere il tuo copy davvero performante in un mercato che va a velocità pazza e in cui c’è un brusio continuo di sottofondo che distrae il tuo cliente.

Siamo costantemente sommersi da messaggi di marketing e circondati dai soliti tentativi di appioppo noiosi. Il tuo cliente quando accende la televisione trova sempre gli stessi film, gli stessi programmi, le stesse discussioni ecc… 

Va online e la musica non cambia. È sempre la stessa minestra riscaldata. 

Se vuoi approfondire l’argomento ti consiglio di leggere questo splendido articolo del Cheg, che ti spiega molto bene perché il tuo cliente di base si annoia così tanto da lasciarsi coinvolgere anche da test insulsi tipo “Scopri che verdura sei”.

Non si tratta davvero di una persona che ripone fiducia in questo tipo di quiz “altamente scientifici”.

Il tuo cliente non è così stupido e sa benissimo che si tratta di un giochino privo di valore.

Ma la sua voglia di resuscitare la sua curiosità moribonda, insieme al desiderio inconscio di raccogliere quanti più indizi possibile (attendibili o meno) per completare il quadro di sé che è rimasto incompiuto, sono più forti della razionalità.

Ora immagina quello che potresti fare se gli offrissi, invece di un test senza senso, un vero strumento per comprendere meglio la sua situazione e capire qualcosa in più di sé stesso, in relazione a ciò che vendi

Tra l’altro il quiz diventa un lead magnet davvero efficace se il tuo obiettivo è far crescere la mailing list. 

Di solito performa meglio di tutti gli altri, perché cattura e trattiene l’attenzione.

(Tra l’altro, fra due o tre mesi aggiornerò questo articolo inserendo un altro caso di una nostra cliente davvero assurdo per quanto è clamoroso)

È per questo motivo che i quiz hanno sempre avuto enorme successo e dalle pagine delle riviste hanno raggiunto Internet e più recentemente invaso i social network.

Un esempio è “What city should you actually live in?”, pubblicato dal sito BuzzFeed a inizio 2014 e che ha avuto ad oggi 20.728.355 visite o 16personalities.com a cui hanno già partecipato 229.752.931 persone.

SENZA. FARE. NESSUNA. SPONSORIZZAZIONE. A PAGAMENTO

In più ti aiuta anche a generare referral.

Qualche tempo fa, Wired ha intervistato in proposito Sherry Turkle, psicologa e cultural analyst all’MIT, che ha condiviso con i lettori una considerazione molto interessante.

La premessa è che prima dell’avvento dei social media le persone facevano già i quiz ma potevano coinvolgere solo gli amici fisicamente presenti.

Partecipare a un test significava quindi concedersi un momento di divertimento tra sé e sé. Ora, invece, i social network danno la possibilità di condividere in tempo reale il risultato con tutti i propri contatti e aumentare il confronto.

Gli utenti non fanno più i quiz solo per il proprio divertimento, ma anche per condividere il profilo ottenuto, ossia per comunicare agli altri informazioni personali

In poche parole, pubblicare o condividere i nostri contenuti ci permette cioè da una parte di rafforzare l’idea che abbiamo di noi stessi, dall’altra di creare negli altri una considerazione positiva di noi.

Christine Whelan, sociologa alla University of Wisconsin, sostiene infatti che condividere i risultati di un quiz sia un modo per dire qualcosa di sé senza sembrare vanitosi, nonché un modo per iniziare una conversazione con gli amici sulla propria bacheca.

Questo desiderio inconscio del tuo cliente di scoprire i lati nascosti del suo carattere e l’impulso di dare sfogo al suo egocentrismo parlando di sé, diventa un veicolo per la diffusione del tuo brand

Anche qui entrano in gioco le neuroscienze, fornendoci una spiegazione scientifica alla nostra dipendenza dal parlare di noi stessi.

Secondo lo studio condotto ad Harvard Why We Talk About Ourselves: The Brain Likes It, rispondere a domande che ci riguardano, rispetto a quelle che si riferiscono ad altre persone, provoca una maggiore attivazione delle zone neurali associate alla ricompensa.

Il tuo cliente fa il tuo quiz (che non è altro che la tua pubblicità) e si sente felice. Quale modo migliore per spingerlo a comprare? Senza contare il fatto che, lato vendita, le risposte che ha dato ti permettono di identificare meglio il tuo lead e segmentare la lista mandandogli mail più adatte ai problemi e alle caratteristiche che ti ha detto di avere.

Ovviamente il quiz non deve essere solo sfizioso, devono esserci dei messaggi di vendita camuffati per indirizzare il cliente nelle sue scelte e il report alla fine del quiz deve essere un piccolo gioiellino di copy.

Ma in questo possiamo aiutarti noi di Propagando! 


Devi solo compilare il form che trovi qui, prepararti a un paio di belle sessioni “modalità spremiagrumi” assieme a noi e poi si parte!